Jamais serei como as folhas secas que caem mortas no chão... Voarei por entre os ciprestes e chegarei a um lugar onde talvez ninguém me encontre, não importa. Recuso-me permanecer no ponto de partida; prefiro a solidão à mesmice.

terça-feira, abril 03, 2012

Palazzo Cambyçara

Questo testo è stato ispirato all’edificio Holiday, situato a Recife, Brasile. Un palazzo di quasi tremila abitanti costruito nel 1957, opera di architettura moderna, di avanguardia. Originalmente fatto per le famiglie benestanti, con il tempo si trasformò in una favela verticale, essendo oggi abitato da persone emarginate, prostitute, piccoli commercianti e anziani. In mezzo al centro del paese, lotta contro la bellezza delle nuove costruzioni, perso in un caos di gente, solitario e abbandonato.

Un monumento alla decadenza, simbolo di un’era ormai dimenticata.

Cambyçara: Nome in lingua Tupi-Guarani che significa donna che allatta, che ama e fornisce l’alimento, dà la vita.


Non so quando ho cominciato a emanare questo strano odore di cosa vecchia. Forse quando il palazzo dove abito ha iniziato a diventare decrepito insieme a me. Ridevo del mio nonno quando diceva che i vecchi puzzavano e dovevano fare il bagno ogni cinque minuti. Soltanto oggi capisco perché si lavava ripetutamente, però faceva un bagno completo solamente nelle domeniche. Il peso della vecchiaia impedisce qualsiasi tentativo di locomozione, principalmente “avventure sott’acqua”; anche di una semplice doccia. Oggi mi riempio di talco e deodorante. Tengo i miei vestiti ragionevolmente puliti, ma non so come eliminare questo odore di roba rinchiusa. Anch’io non riesco a fare il bagno tutti i giorni, la mia artrite me lo impedisce. E così come i miei antenati, appoggio il bastone già consumato nel muro di mattonelle antiche e mi lavo fino a dove le mie forze possono sopportare, sentendomi un po’ più fresco ma esalando quel maledetto odore di cosa dimenticata, ammuffita. Sento il “profumo” del nonno nella mia pelle e mi ricordo di lui come si fosse oggi. Io lì, fermo nella stazione, tenendo stretta la valigia con le mani nervose, lo sguardo perso nella nostalgia che già sentivo della mia terra.  Mi passò le mani rugose nei capelli e mi diede un bacio con gli occhi lucidi. Presto io sarei diventato un dottore come lo è stato lui. L’università mi aspettava nella capitale e io avrei dovuto arrangiarmi da solo, ma ero contento; finalmente avrei sentito il gusto della libertà e avrei avuto un appartamento nuovo di zecca e vicino al mare tutto per me.


Oggi, ho settantacinque anni, i miei vicini già non sono quelli di un tempo. Gli studenti hanno preso un’altra strada e le famiglie benestanti che venivano a villeggiare nel litorale, pian piano hanno abbandonato la città, trasferendosi ad altre spiagge, meno caotiche, scappando dal futuro. Io rimasi li. Accompagnai ogni mattone, ogni sasso e cazzuola di cemento di questo maledetto progresso. Il palazzo di lusso, un’architettura di avanguardia, è marcito come il mio corpo: io ho delle rughe, l’edificio presenta delle crepe, io odoro di naftalina, lui di muffa e promiscuità. Siamo compagni di vita, fatti uno per l’altro. Non mi sono mai sposato, non ho voluto avere dei figli, ho un compromesso col mio appartamento, testimone di tutta una vita, probabilmente il mio futuro tumulo. Pochi giorni fa ho compiuto gli anni, ma nessuno si è ricordato. Meglio così, non c’è niente da festeggiare in un corpo marcato e claudicante. Sono passato, cosa vecchia, un soprammobile dimenticato che nessuno vede o fa finta di non vedere. Non vedo necessità di una torta di compleanno, o di capellini conici e colorati confermando il mio stato di ritardamento. Non riuscirei a soffiare le candeline senza sputare nella glassa della torta. Preferisco essere dimenticato, io stesso vorrei dimenticarmi, ma ancora non so come si fa. Le mie articolazioni mi ricordano ogni minuto che sono una catasta di ossa porose. Inciampo tutti i giorni nella la mia figura grottesca davanti allo specchio e evito di pensare quanto sono stato bello in passato. La mia pelle, prima morbida e tonica, adesso sembra fatta di carta; si strappa al minore movimento, lasciandomi dei segni orribili che non posso più curare. Sono stato obbligato ad abituarmi, il tempo è buon maestro. L’unica cosa che non sono riuscito ad accettare è il fatto che ho questa età. Mio corpo flacido non accompagna la mia mente ancora giovane. So apprezzare una bella donna quando la vedo, però non ho più diciotto anni, e non ricordo nemmeno quando è stata l’ultima volta che ne ho avuta una nelle mie braccia, neanche se era di famiglia o di strada. Malgrado io non riconosca più la mia virilità, le desidero ancora; ecco la grande tragedia della mia vita.

Ho lasciato il mio minuscolo appartamento alle sette e mezza del mattino. Una delle cose che impariamo con la vecchiaia è che il sonno è il primo ad abbandonarci, fino a sparire del tutto, costringendoci a memorizzare le crepe nel soffitto alle tre del mattino, con lo sguardo fisso nell’infinito. Mi sdraiavo tardi e mi svegliavo con i primi raggi di sole.

Dopo essermi lavato e sciacquato la dentiera ingiallita, trovai lei, vicino alla porta, nel corridoio claustrofobico del nostro estimato palazzo. In mezzo a tanti appartamenti in un unico piano, lei si distaccava da tutti gli altri abitanti, era veramente la luce di quel posto. La camicia da notte deliziosamente volgare ancora incollata al corpo esibiva senza pudori le sue forme appetitose, denunciando il suo mestiere.

— Buon giorno, signor Antunes!

Anche nel torpore del mattino, la sua voce era deliziosa. Non immaginavo che una donna potesse dimostrare sensualità col mal alito dell’alba. Marlì era così, emanava peccato e voluttuosità anche nelle ore diurne.

— Già in piedi, figliola?

Quella è stata l’unica frase che sono riuscito a comporre; ridicolamente paternale. Era meno umiliante fare la parte del padre che di vecchio sporcaccione.

— Sono a pezzi! Dopo la serata di ieri in “pieno servizio”, ho dovuto svegliarmi presto… Che vita di merda, la mia!

— E per che non torni a dormire, figlia?

— Devo pulire questa merda di casa. Non posso ricevere così la mia sorella, non crede? Lei non sa che faccio la prostituta, pensa che lavoro come commessa.

Un vento freddo entrò da un finestrino nel muro del corridoio spalancando la porta di Marlì. Sentii il profumo da due soldi del detergente di eucalipto spargersi nel piccolo soggiorno. Con le braccia fine, lei strusciava il pavimento unto; un gesto ripetuto e violento, come se quel liquido fosse capace di pulire non solo lo sporco delle mattonelle, ma anche la sua reputazione, cancellando per sempre i dolorosi segni nel corpo e nell’anima. Come me, lei venina dalla campagna, però fece delle strade la sua università, e senza laurea o titoli di studio, sosteneva sè e la famiglia lontana.

— Ma… come farai con i tuoi clienti, figliola? Lei sospetterà…

— Io non sono di queste puttane senza morale, signore Antunes! Lei mi ha mai visto portare clienti qui in casa mia? In questo senso io apprezzo molto la famiglia; fuori dalla porta faccio il mio lavoro come si deve, ma quando torno a casa, sono soltanto la Marlì. Non mi piace mescolare le cose. I clienti io li servo nella strada, in orario d’ufficio, per non avere sospetti.

Nelle sue parole ho sentito un ridicolo “rutto” moralista spuntando nel suo petto volgare. Intanto che lei spolverava l’immagine della madonna sopra un altare improvvisato,  guardai le sue cosce mulatte e carnose e chiesi alla santa perché noi vecchi dobbiamo soffrire tanto. Salutai Marlì e le augurai buona fortuna; è stato quello che sono riuscito a dire senza togliere lo sguardo dalla sua carne abbronzata. Abbottonai la mia giacca con le dita tremole. Il vento di quei corridoi mi dava i brividi, e nonostante il clima tropicale sentivo molto freddo – Il freddo della morte che ronda tra tutti i vecchi. La lampada vicino all’ascensore si era bruciata da quasi un mese e nessuno provvedeva a cambiarla.  Ero stanco di camminare nel buio e dovere tastare le pareti fredde. Verificai i soldi in tasca, mi bastavano appena per pagare la tassa del condominio e mi sarebbe avanzato qualche spicciolo. Avrei approfittato dell’occasione per reclamare al nuovo amministratore del palazzo. Lui mi avrebbe ascoltato, dopotutto ho sempre pagato puntualmente!

Entrai nell’ascensore vecchio e stretto, quelli con la saracinesca di ferro. Mi sentii come una sardina in quella scatola claustrofobica e rumorosa. L’aria sapeva di ruggine e io volli scendere  subito, cominciai a sentirmi male. Quel marchingegno si fermò nel nono piano e un ragazzino di più o meno diciassette anni entrò affrettato come chi non può perdere l’ultimo treno per una terra distante. Era vestito come i ragazzi della sua età, però aveva gli occhi nervosi e le mani fredde. Ho potuto sentire la freddezza del suo corpo anche senza toccarlo. Il cappuccio della felpa è scivolato della testa, rivelando il suo viso pallido e frastornato. Appoggiandomi forte al bastone, mi avvicinai: la mia rigorosa educazione mi obbligava ad aiutare qualsiasi persona che stesse male, e quel giovanotto aveva l’aria malata.

— Ha bisogno di aiuto, figliolo?

— Passa tutto, vecchio!

Anche se convivo tutti i giorni con la mia figura senile, non mi sono ancora abituato a essere chiamato vecchio. Mi suonava quasi come un’offesa, un termine che cancellava tutta l’esperienza che avevo accumulato nell’arco della mia vita; come se tutti i maledetti anni che avevo vissuto non valessero più niente. La parola “vecchio” non mi è mai piaciuta: anche i musei hanno il suo valore, ma un uomo vecchio per la società è simile alla spazzatura; inutile e sudicio.

— Mi chiamo Antunes, figliolo.

— Zitto, vecchio stupido, passa subito la grana!

Non so come lui sapeva che io avevo dei soldi in tasca. Probabilmente non lo sapeva, non aveva ancora percepito la gravità del suo gesto nel togliere un coltello dai pantaloni. Che male potrei fare a quel ragazzo? Con le mie forze ridotte a zero sarei incapace di reagire, anche se lui non fosse armato.

— Non ho niente, ragazzo!

Ma le mani agili del ragazzotto trovarono velocemente un piccolo pacchetto di soldi nei miei pantaloni. Non ho mai pensato che dentro del palazzo che un giorno fu sinonimo di “glamour”, dovessi stare attento alle rapine. Avevo già sentito parlare di piccoli furti nel condominio, ma non ci credevo molto. Un piccolo sacchetto con un tipo strano di erba cascò dalla sua tasca, lui raccolse rapidamente e mise insieme ai miei miseri spiccioli. Preferisco non divagare su il contenuto di quel pacco. Preferisco pensare che erano erbe medicinali. Credo ancora nella ingenuità delle persone. Solo non credo che l’educazione sia finita. Cavolo, chiamarmi di vecchio…maledetto stupido!

La porta dell’appartamento 602 era la più bella di tutto il palazzo. Il tappeto ricamato dava una falsa idea di nobiltà a quell’angolo. L’amministratore dell’ edificio, un tipo grasso e con dei baffi folti, mi ricevette un po’ assonnato e io rimasi fermo per un lungo minuto senza sapere cosa dire.

— A quest’ora, Antunes? Ma, per favore…cosa vuole?

— La lampadina del mio corridoio…si è bruciata.

— Te l’ho già detto che la cambierò, più di questo che altro vuole che faccia?

— E’ che…è quasi un mese che aspetto…

— Sa quante quote condominiali in ritardo sto aspettando? Sono tremila abitanti, quasi nessuno paga…credi veramente che riesco ad amministrare questa baracca senza grana? Oppure vuole che metta di tasca mia?

L’idea di rivendicare i miei diritti è svanita quando l’amministratore, dondolando la pancia pigramente, mi mise al corrente con la reale situazione del palazzo. Con più di quaranta per cento di abitanti inadempienti il povero uomo poco poteva fare. Ho mandato giù la saliva, il mio stomaco vuoto dovuto al digiuno mattinale cominciava a brontolare. Con la bocca secca, mi appoggiai stretto al bastone e rimasi in silenzio. Non riuscii a dire che quel mese non ce l’avrei fatta a pagare la tassa del condominio.

So che non sarebbe servito a niente raccontargli l’evento della rapina, e passare da vittima. Se gli abitanti non si scioccarono neanche con il recente assassinato di un inquilino, certamente non avrebbero fatto molto caso al mio dramma. Io sono stato stupido, chi abita nel palazzo Cambyçara non ha il diritto di girare con dei soldi in tasca. Lo salutai senza dire niente con la promessa di ritornare con i soldi della mensilità. Ero troppo stanco, mi fermai nel corridoio, mi sedetti in una sedia di vimini dimenticata in un angolo, riposando il mio corpo stanco. La grande confusione di anime affrettate e bambini reclamando il primo pasto del giorno no mi dava più fastidio. Erano anni che abitavo in quel posto, anzi, secoli! Tutto quel mucchio di cose e persone di origini dubitose mi era assolutamente normale. Guardai intorno e scopri lo scheletro di quello che un giorno fu una dimora nobile. Non mi sono mai fermato a pensare dei fili scoperti della luce e del tetto ammuffito. Le infiltrazioni scendevano attraverso il muro, formando disegni putridi, una specie di tatuaggio verdastro difficile da essere eliminato, una di queste macchie che impregnano l’aria e la mente. Più avanti, nello stesso piano in cui abitava il nuovo amministratore ho potuto sentire l’odore del sangue del vicino assassinato. La macchia era ancora lì, non si vedeva, ma si sentiva. Successe di notte, ma nessuno sentì gli spari. Sei pallottole, tutte nella testa. Il palazzo non si svegliò con il rumore della morte. Non avevo mai visto niente di strano in quel ragazzo, però ho voluto credere che anche lui usasse erbe medicinali, anche se dicevano che la polvere bianca che lui consumava, costava più della sua vita.

Pian piano le porte si aprivano, lente e rumorose, ancora con puzza di letto e peccato. Non tutte le “signorine” erano come Marlì, gran parte portava “lavoro” a casa e le pareti fini denunciavano la mancanza di pudore che si nascondeva in ogni cubicolo di quei lunghi corridoi. All’inizio tutto quel “entra e esci” di estranei ha causato proteste tra i vicini, ma il tempo si incaricò di trasformare il fatto in una consuetudine. Giovani imberbi, signori con i capelli bianchi, rimediati e vagabondi. Uomini profumati e mal lavati. Le giovani prostitute accettavano qualsiasi tipo di cliente, sempre che potessero pagare la loro misera tariffa, anche perché le più esperienti non erano disposte a perdere tempo con gente sudicia o meschina, andavano direttamente sulla via principale, selezionando una clientela migliore. Se mia mamma fosse ancora viva avrebbe avuto una sincope al sapere che divido lo stesso tetto con questo tipo di gente. Prostituzione, omicidio, inadempienza e traffico di droga; questa era la mia realtà. E io che sono arrivato qui nel fiore dei miei diciotto anni, esibendo i miei quattrini, vivendo nel lusso, approfittando il meglio che la città mi poteva dare. Mi ricordo così bene di quest’epoca…Il palazzo imponente odorava a nuovo, la vernice fresca scintillava con i raggi di sole che arrivavano diritti al soggiorno, senza la barriera dei grandi grattacieli che ci sono oggi davanti. Ho conosciuto tanti altri ragazzi che, così come me, sono venuti a studiare nella metropoli. Le luci dei ristoranti e dei locali lampeggiavano davanti a noi, chiamando la nostra attenzione e la nostra paghetta. Donne di tutti i tipi cadevano nelle nostre braccia, nelle braccia degli “studenti contadini”. Questa era la nostra etichetta, praticamente vergini, ci deliziavamo con quelle donne mature e assetate di soldi. Ho perso i conti di quante volte ho frequentato la “discoteca volante”, una specie di bordello camuffato di bar. La luce era diffusa e calda e li passavamo la maggior parte delle nostre notti insonni. I miei amici si sono laureati, diventarono dottori; io ho continuato a deliziarmi nelle braccia delle bimbe. Mi piaceva troppo la trasgressione per imprigionarmi in un diploma. Ho avuto mille lavori, dai più bassi ai ben pagati, ma nonostante questo, mio nonno morì disgustato, non ho seguito le sue raccomandazioni, non sono diventato l’avvocato che lui ha sempre sognato. Mi lasciò soltanto l’appartamento in cui abito oggi e una casetta semplice in un suburbio lontano, il resto dell’eredità lo ha destinato alla chiesa. Ho smesso di andare alla messa. Oggi vivo dell’affitto di quella casa, in fondo lui sapeva che io, in un modo o nell’altro, mi dovevo sostenere in vecchiaia. Anche lui conosceva le delizie di vivere in mezzo alle donne e secondo me, ha potuto immaginare che forse io mi sarei lasciato trascinare dal gusto del peccato. Era sicuro che un giorno anch’io avrei esalato lo stesso odore ocre che lui emanava. I miei colleghi di gioventù non mi cercarono più, mi abbandonarono al vedere che io non sarei arrivato da nessuna parte. Oggi non ho amici, ma non mi pento di niente nella mia vita. Ho vissuto intensamente, ho bevuto nella bocca delle donne più favolose della città, ho fumato sigarette e sigari, ho guidato camion e ho pulito cessi. Sono sempre stato libero. I miei capelli bianchi mi hanno dato un certo rispetto, sono il simpatico signore Antunes, il nonno di tutti, quello che non fa del male a nessuno. Vivo la mia neutralità opaca, insipida. Sto bene così. Tornai al presente risvegliato dal odore forte del mio alito. La mia bocca era amara. Avevo bisogno di mettere qualcosa nello stomaco.

Il pian terreno era il luogo più animato del palazzo. I bar e i piccoli negozi inquinavano tutto il quartiere, però eravamo così abituati che non riuscivamo a vivere senza di loro. La mancanza di igiene mi preoccupava, ma dopo tutti quegli anni ho imparato a sopportare anche la sozzeria. Girai intorno ad una piccola montagna di rifiuti bagnati e mi appoggiai nel banco della baracca di sempre. Il signore Feitosa era lì; svogliato e sudicio, con un asciughino appoggiato sulla spalla pelosa, indossando la sua consueta e schifosa canottiera che un giorno era bianca; con una tosse cronica che lo accompagnava dai tempi di gioventù. chiesi un caffelatte. Ed era subito pronto, come sempre, veloce ed acquoso, con la panna del latte grasso galleggiando nella superficie del bicchiere. Sembrava acqua sudicia, ma per me era delizioso. Chiese un cibo qualunque per accompagnare la bevanda. Morsicai il toast con difficoltà, il pane gommoso era freddo, ma mi piaceva così, forse ho imparato ad accetarlo. Andavo lì tutti i giorni, non tanto per il cibo, ma per il piacere di vedere gente, di chiacchierare con gli altri commercianti, di sentirmi ancora vivo e partecipante.

— Che mi racconti, Feitosa?

— Che ti devo dire, Antunes? Lavoriamo per questi vagabondi, per queste donnace e a fine mese non ci avanza niente! I tempi sono cambiati, i controlli non ci lasciano in pace, non so dove andremo a finire…

Io ero d’accordo con l’ispettori sanitari, stabilimenti come quelli dovrebbero essere interdetti, Io stesso non dovrei mangiare lì, ma dopo tanti anni niente mi potrebbe fare male. Era la mia gente, compagni di miseria, persone cadute nella dimenticanza, come me: senza presente né passato e probabilmente senza futuro.

— Le cose migliorano con il tempo, mio caro, sempre migliorano…

— Se migliorano come è migliorato questo palazzo…

Feci una risata per niente convinta mentre il pane si attaccava alla mia dentiera e io prendevo un ultimo sorso del mio caffè scialbo. Misi le mani in tasca per raccogliere gli ultimi spiccioli che avevo. Mi dimenticai completamente che poco tempo prima fui rubato da un borsaiolo. Un “  borsaiolo”… Dio mio… come sono vecchio! Quel ragazzo aveva ragione, mi sono fermato nel tempo e nello spazio utilizzando vocaboli del tempo “del medioevo”! Ed ero lì di nuovo a rovesciare espressioni dentro di me stesso che nessuno più sapeva il significato. Chiesi a Feitosa che mi facesse credito. Il suo silenzio mi fece dedurre che la risposta era positiva. Dovevo pagare la tassa del condominio e adesso anche la colazione. Un giovane delinquente passò correndo vicino a me, evitando di investirmi per poco. Nelle mani una bottiglietta di “colla” e alle calcagna alcuni turisti furiosi. Non mi sono mai abituato alla poca età dei marginali moderni. Figlioli appena usciti dai pannolini che al posto della pappa si nutrono del inebriante profumo degli stupefacenti. Proseguii il mio camino, il mare soffiava una calma brezza, caricata di salsedine. Ammirai le belle palme che adornavano la via, una città bellissima. Mi innamorai dal primo momento che la vidi. La amavo ancora, ma sentivo le lacrime bruciare i miei occhi senili al vedere in quello che si è trasformata. Le baracche di cianfrusaglie, la fogna scorrendo per i marciapiedi rotti, il disinteresse delle autorità con l’igiene e la sicurezza del cittadino…

Le urla degli ambulanti mi svegliarono dal mio torpore. Era inutile rimanere lì fermo immaginando quello che sarebbe potuta diventare quella città o quello che era in passato. Tutto era cambiato, io compreso. Non mi restava nient’altro che ritornare al mio insalubre appartamento, accendere la tv e fare finta che non era successo niente. Quel maledetto ascensore del 1950 ha avuto così poche manutenzione in tutto suo tempo di vita, ero sicuro che lui era più marcio di me. Non mi sono mai fidato di quel marchingegno. Mentre lui saliva lento e floscio provavo a non pensare ai suoi scricchiolii. Potevo sentire i cavi d’acciaio sbriciolarsi, la cassa metallica che si attorcigliava come se si annodasse. Sospirai sollevato quando arrivai al mio piano. Mi sentii felice nuovamente nel ritornare nel mio corridoio lungo e buio. Aprii le finestre del mio appartamento e respirai la pura aria marina.

Il panorama era spettacolare; la spazzatura e il casino delle baracche di cibo sembravano sfumarsi all’orizzonte. Ascoltavo solamente le paglie delle palme e le machine suonando i clacson da lontano. Per la prima volta in tutti quei anni io sarei entrato per la lista dei debitori del condominio, e io che ero del tempo in cui la parola valeva tanto quanto un documento firmato dal notaio. Ero veramente vecchio. Maledetto ragazzo che mi rubò. Non pensai nemmeno di andare a denunciarlo. Avrebbero riso di me, solamente uno stupido come me doveva stupirsi con i crimini commessi nel più famoso, il più decadente palazzo della città. Io ero un fesso, come mi aveva detto quel ragazzo.

Non ho voluto guardare le trasmissioni vespertine, avevo un amaro in bocca e nell’anima che mi toglievano il piacere per le cose più semplici. Mancavano dieci giorni per la fine mese…fino a quel giorno avrei dovuto arrangiarmi come solo Dio sapeva.

Non sono il tipo che mette soldi da parte, non avevo riserve nè risparmi, sono sempre stato un “bon vivant” e anche con tutte le asprezze di una vecchiaia modesta, non mi pento di niente. Ho vissuto, e adesso consegnavo la mia vita alla Providenza divina. Mio nonno mi ha insegnato a fare il bagno tutti i giorni e a fidarmi del padre celestiale. Ma dall’alto dei miei quasi ottanta anni non so più a cosa credere; forse ho perso la fede in tutto, anche in me stesso.

Frugai i cassetti del vecchio comodino e tirai fuori una scatola di tranquillanti. Era molto che non li prendevo, non ho neanche controllato se erano scaduti. No mi importava. Li presi, credo fossero cinque o sei, con molta acqua. Avrei voluto dormire per tutti i dieci giorni, senza dovere pensare a niente, principalmente nella vergogna di non avere i soldi per pagare i conti. Forse un angelo sarebbe venuto a raccogliermi, forse presto non avrei più bisogno del bastone. Non sapevo cosa stavo facendo o pensando. Mi sdraiai nel mio ampio letto matrimoniale cullato per la dolce brezza del mare.

Non so quanti giorni ho dormito. Forse tre o quattro. I crampi dello stomaco denunciavano molte ore di digiuno. Sentivo tutte le sue rughe contrarsi in spasmi. Guardai intorno a me per orientarmi. Ero nel mio caro appartamento… La mia dolce dimora. Mi alzai con difficoltà e trascinai mio corpo decrepito fino al bagno. Allo specchio vidi che ero invecchiato di per lo meno cinque anni. Questo è uno dei lati sorprendenti della vecchiaia, ogni giorno che passa, si invecchia un anno e la differenza è notevole! Seduto in un sgabellino di legno, mi accomodai sotto la doccia, dispensando un minuto per ogni anno della mia vita, lavando più di mezzo secolo di vivenza.

Mi rasai pensando al barbiere dell’angolo che mi faceva barba, capelli e baffi… Quanta nostalgia! E’ un mestiere che quasi non esiste più! Questa volta lasciai perdere il talco che avrebbe intensificato ancora di più mio odore di cosa antica. Mi riempii di dopo barba e mi pettinai. Avevo sete. Bevvi diretto dalla scatola i residui di un succo d’arancio dimenticato nel fondo del frigo. Forse era lì da un mese, non ho nemmeno sentito che gusto aveva, so soltanto che era giaccio, come i miei piedi. Misi le scarpe e uscii. Avevano cambiato la lampadina. La luce mi sembrò esageratamente forte, quasi desiderai l’oscurità di prima. Una sagoma comparse lungo il corridoio, sistemai gli occhiali da vista e vidi la sensuale figura di Marli. Bella come sempre, ma senza i suoi abituali vestiti attaccati al corpo. Esibiva una gonna lunga e una camicetta molto composta, abbottonata fino al colo. Nel viso nessun segno dello scabroso trucco di bordello. Le labbra pallide non ostentavano il rosso sangue del rossetto da due soldi e i capelli erano legati di forma molto casta.

— Buongiorno, signore Antunes. Era sparito…

— Marli, mia cara, che ti è successo? Hai abbandonato il mestiere?

— Pssssstt…zitto! Per tutti gli effetti sono una ragazza di famiglia. E’ arrivata la mia sorella.

— Ah, capisco…

— Ma come fai a vivere adesso senza i tuoi client…

— Marli, con chi parli?

— Rosalba, Io…è…questo è il signore di cui ti ho parlato.

— É lui?

— Antunes signorina, molto lieto.

— Così vecchio, Marlì?

— É un uomo molto decente, ha una buona pensione e mi vuole bene, Rosalba. sarà un buon marito…

— Marito?!!!…pensai…

Mi si gelò il sangue, qualcosa mi diceva che Marlì non stava scherzando ed io mi trovavo in un grosso guaio senza volerlo.

— Bene…al meno lui è pulito, profuma. Mi sembra un bravo uomo. Auguri sorellina. Sono contenta di sapere che hai un uomo al tuo fianco. Molto lieta di conoscerla, signore. Me ne vado in camera, è l’ora del mio rosario. Ci vediamo più tardi.

 Accompagnai con gli occhi increduli l’ombra della “beata” che trascinava sua lunga gonna fino in camera. Marlì mi teneva per mano. Era afflitta, digerendo ancora l’approvazione della sorella.

— Grazie, Signore Antunes. Rosalba ha simpatizzato con lei. Non voglio che lei pensi che sono una donnacia nella capitale…

— Ma…dovrò veramente sposarti?

— E melo fai sapere così, senza preavviso?

— Ma no, Signore Antunes, è soltanto una messa in scena. Solamente mentre mia sorella è qui in città. Lei non si rifiuterà ad aiutarmi, vero? E’ molto importante per me!

Mi ricordai per un istante che non avevo neanche un centesimo in tasca, la tassa del condominio era in ritardo e la mia dispensa era vuota.

Per tutta la mia vita ho imparato ad arrangiarmi, prendendo il mio sostegno da tutte le parti, senza ricorrere all’aiuto di nessuno. Sono sempre stato intelligente e onesto. Ma esiste una linea molto tenue tra l’onestà e l’istinto di sopravvivenza. In quella parte della mia vita io non potevo avere tanti scrupoli. La vecchiaia ci regala la libertà di essere sinceri con noi stessi e ci permette dire quello che ci passa per la testa. Per la prima volta ho approfittato della mia età avanzata senza nessun rimorso.

— “Trecento bigliettoni”! E chiudiamo così! Sarò tuo marito fino a quando vorrai, mia cara!

Mio nonno aveva ragione, i vecchi puzzano. Però in quel giorno io profumavo come il figlio del barbiere. Ero un uomo decente. Lui sarebbe veramente orgoglioso di me.

Sarei entrato nella storia di quel palazzo per la mia alta pericolosità. Ero un uomo furbo! Ho avuto i miei servizi pagati da una prostituta.

Stavo diventando veramente vecchio, i tempi erano cambiati.

E molto!




Autore: Ilka Christine Albert Canavarro

Pubblicato su: Revista Textura ANO I – Novembre 2010

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